Tra un tumore ricostruito in laboratorio e una partitella a calcio

 

Sono atterrata a San Diego poco più di sei mesi fa con tanta voglia di far bene nel campo lavorativo e di crescere in quello personale grazie a questa esperienza.

San Diego è un luogo che offre paesaggi meravigliosi e in cui non ci sono le stagioni: è sempre primavera, con temperature tra i 15 e i 25 °C tutto l’anno.

L’arrivo è stato un salto nel vuoto: non solo trovare casa, adattarsi al nuovo ambiente, alla nuova cultura, prendere la patente. Ma anche inserirsi in un laboratorio in cui sono l’unica europea.

È stata una sorta di terapia d’urto che però in pochi mesi mi ha fatto già imparare moltissimo: mi sta aprendo la mente e mi sta fornendo tante competenze nuove.

Lavoro in collaborazione con biologi e bioingegneri e molto spesso faccio da ponte tra queste due professionalità, grazie alle mie competenze ibride.

Ho trent’anni. La laurea in Biotecnologie e il dottorato a metà strada tra biologia e bioingegneria mi hanno fatto diventare una ricercatrice un po’ anomala: né biologa pura né bioingegnere puro.

Questo a volte mi fa sentire un po’ fuori luogo, come se non fossi né carne né pesce. Ma proprio grazie a queste competenze miste sono stata scelta, dopo un’esperienza al MIT di Boston, per una borsa di studio al Moore Cancer Center, che fa parte della University of California a San Diego.

Qui lavoro alla costruzione di modelli di tumori che possono crescere su speciali supporti o nel corpo di animali da laboratorio. Attraverso questi modelli è possibile conoscere meglio la patologia e verificare l’efficacia di nuovi farmaci.

Ho in cantiere diversi progetti: in uno sto sviluppando un modello di topo che mima il tumore della testa e del collo. Ciò consente di studiare nel dettaglio questa forma tumorale molto aggressiva e comprendere, per esempio, come si diffonde o quali sono le diverse popolazioni di cellule che fanno progredire la malattia. Una volta che avremo sviluppato un modello affidabile testeremo farmaci in grado di rinforzare il sistema immunitario, in modo da combattere il tumore dall'interno. Un altro progetto a cui sto lavorando è la costruzione di “organi sintetici” sfruttando speciali supporti capaci di far assumere una conformazione tridimensionale alle cellule.

Forse è stato per mia nonna che ho deciso di fare quel che faccio. Per me è stata come una madre ed è mancata a causa del cancro. Questo mi ha motivato molto durante gli studi e ancora oggi penso che se il mio lavoro potrà contribuire a evitare il dolore anche a una sola persona sarebbe grandioso.

I progetti che seguo sono molto impegnativi e lasciano poco tempo al resto, anche se qui ho ormai una seconda famiglia internazionale. Insieme a questi amici riusciamo a volte a ritagliarci un po’ di tempo libero. Non che si faccia niente di eccezionale: qualche uscita dopo cena, qualche scampagnata nel deserto, qualche festa, sempre all'insegna interculturale.

Per San Valentino, per esempio, ci siamo ritrovati dopo il lavoro per una partitella di calcio. Eravamo cinesi, giapponesi, americani, indiani e… italiani, naturalmente. È veramente bellissimo vedere tanta varietà di culture tutte insieme.

  • Mara Gilardi

  • Università:

    Moore Cancer Center, University of California, San Diego

  • Articolo pubblicato il:

    6 marzo 2018